destionegiorno
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Nella mia alquanto lunga vita ho avuto, e ho tuttora, tre grandi amori: la musica, la fotografia e la scrittura, ma le poesie mi hanno sempre messo in ansia. Al solo pensiero di dover cancellare una parola, una virgola, un segno di punteggiatura, sudo freddo. Mi sembra di abbandonare dei figli miei, ... (continua)
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Sei figlio della rabbia,
bimbo mio,
della nostalgia di casa,
della voglia di tornare
e non poterlo fare.
Italiano in terra straniera,
tra sputi, stenti e miseria,
voleva darti un futuro migliore,
tuo padre che ti amava.
Voleva donarti
tutti i... leggi...
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Al tuo primo pianto
t'ho creduto.
Melodica scala cromatica
in un crescendo
di note salate,
le tue parole disperate.
Al tuo secondo pianto
t'ho desiderato.
Accordi geniali, appassionati,
armoniche onde
d'ispirato canto,
allo specchio... leggi...
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Hai spiato con cura il mio cuore.
Con pazienza hai scucito i miei sogni.
Hai indossato i miei sentimenti,
rubando, ingannando, vivendo
una vita che non ti appartiene.
Mi hai spogliata
perfino del nome e,
travestita da candido agnello,
hai... leggi...
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La marionetta
si agita
tra le dita
del suo burattinaio.
I movimenti
disarticolati,
le braccia,
le gambe
disossate,
incontrollate...
La testa
piegata
sul corpo
oscilla
qua e là
senza ritmo
né danza.
Mangiafuoco
si... leggi...
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Questa poesia è pubblicata anche nel sito RimeScelte |
Nemesis Marina Perozzi
| Dammi la mano, papà,
non mi lasciare.
E’ buio e fa freddo,
qui dentro.
Sento i fischi, le urla,
i latrati dei cani,
oltre i vagoni piombati
al binario 21.
Ricordo l’appello,
al quinto raggio,
il mio nome sulla lista
dei deportati,
come dalla maestra
scandito a scuola.
In fila, andiamo, si parte.
Un secchio, la paglia per terra,
né luce né acqua,
sui carri bestiame al macello,
presagio di orrore, di morte.
Sette le porzioni di cibo.
Sette i giorni del viaggio.
Sette le luci del candelabro
eternamente acceso.
Per l’ultima volta
ti strinsi la mano, papà,
prima di entrare nel campo.
Il rumore, osceno, assordante,
quel puzzo di pelle bruciata,
il mio nome strappato per sempre,
le cifre infuocate sul braccio.
Nuda e senza capelli
ho imparato a marciare nel fango.
Sempre più sporca, la neve,
rovente, di quei camini la fiamma,
mentre io continuo a sfilare
al suono delle campane,
tra sputi ed insulti,
invisibile agli occhi
del mondo là fuori.
Suona violino,
non cessar di suonare.
Non farmi vedere quei morti,
scheletri privi di tomba,
in attesa d’esser bruciati.
I salmi ripasso a memoria,
ma Dio non esiste qui al campo.
Guarda il tuo gregge,
Davide d’Israele,
ridotto a larva strisciante,
preda indifesa dei lupi.
Senza pastore, né guida,
non resta che stare in attesa.
Sette sono i sigilli.
Sette le trombe squillanti.
Sette le coppe dell’Ira di Dio. |
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«Gli ebrei italiani vivevano da perseguitati fin dal 1938 a causa delle leggi razziali fasciste. Con l’occupazione nazista, dopo l’8 settembre 1943, non ebbero più scampo: iniziò una vera e propria caccia all’uomo. Liliana Segre aveva allora 13 anni e viveva a Milano con il padre Alberto e i nonni. Tentarono di espatriare, ma vennero respinti dagli svizzeri alla frontiera. Furono arrestati, tradotti a S. Vittore e infine deportati ad Auschwitz. Era il 30 gennaio 1944, quando il treno partì dal binario 21 della stazione Centrale. Solo Liliana miracolosamente sopravvisse.» |
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Pp (27/01/2010) |
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